Il 14 luglio 1789, il re di Francia Luigi XVI, preoccupato per i disordini a Parigi, chiese al duca di Liancourt se fosse in atto una rivolta, ricevendo una risposta che segnava l’inizio di una nuova era: «no, Sire, è una rivoluzione». Questo termine iniziò a indicare un profondo cambiamento politico, sinonimo di una trasformazione sociale complessiva e dell’avvento di un mondo nuovo. La storia fu interpretata come un’autostrada del progresso, con le rivoluzioni come momenti di grande autocoscienza collettiva, simili a quella francese.
Tuttavia, con la crisi della visione progressista, questa concezione è cambiata. Donald Sassoon, storico britannico allievo di Hobsbawm, ha pubblicato “Rivoluzioni. Quando i popoli cambiano la storia”, un ampio studio che analizza eventi fondamentali come le due rivoluzioni inglesi, la rivoluzione americana e quella francese. Sassoon include anche processi storici significativi come il Risorgimento italiano e l’unificazione tedesca.
Il suo approccio combina narrazione e interpretazione, analizzando eventi storici tenendo conto delle varie opinioni nel tempo. Per esempio, la rivoluzione americana è ripensata come anticoloniale, estendendosi dal Boston Tea Party alla Guerra Civile. Sassoon allarga l’analisi della rivoluzione francese fino alla Terza Repubblica e della rivoluzione sovietica fino alla dissoluzione del comunismo nel 1989.
Tuttavia, il suo ampio spettro tematico solleva difficoltà nella definizione di cosa sia una rivoluzione. Sassoon nota che molte rivoluzioni borghesi furono guidate da intellettuali per le libertà civili e non necessariamente per instaurare il capitalismo. Questo lascia aperte questioni sui movimenti di liberazione nel XIX e XX secolo, rendendo complessa una chiara definizione di rivoluzione.