Giovanni Galeone, un allenatore di calcio napoletano di nascita e triestino d’adozione, è scomparso di recente. Era un uomo che cercava la bellezza nel calcio, anche a costo di perdere. La sua filosofia di vita e di calcio era influenzata dalle due culture che lo avevano formato: il calore meridionale e la malinconia mitteleuropea.
Galeone era un allenatore che amava il calcio come una forma d’arte, dove le parole come “pressione”, “costruzione” e “verticalità” contavano solo se diventavano racconto e definivano un modo di stare nel mondo. Quando allenava il Pescara, la sua squadra sembrava uscita da un romanzo di formazione, con ragazzi che correvano per gusto, per fame e per amore del gioco. Lui li guidava come un maestro d’orchestra, cercando armonia nel caos e movimento nel pensiero.
Galeone era un uomo di sinistra, che credeva nell’emancipazione attraverso la cultura, nella responsabilità collettiva e nella dignità del lavoro. Aveva letto molto e sapeva che il calcio non poteva essere solo risultato, e che la sconfitta poteva essere a volte una forma di bellezza. Era un visionario, ma non ingenuo, e sapeva che il sistema tende a schiacciare chi osa immaginare. Per questo, molti dei suoi allievi lo ricordano come un profeta discreto, che non imponeva ma suggeriva.
Galeone era un allenatore che cercava di scrivere una pagina nuova nel calcio, cercando il calcio come si cerca un libro che non esiste ancora. Quando lo trovava, anche solo per un’azione o una combinazione riuscita, sorrideva come chi riconosce un verso perfetto. Il suo Pescara di fine anni Ottanta non aveva paura di costruire dal basso e osare l’estetica della verticalità, cercando l’imprevisto. Era calcio di provincia con dentro la dignità di un sogno letterario.
