Sui vent’anni, Vitaliano Brancati afferma di essere stato fascista fino in fondo, senza alcuna scusa. Attratto dagli aspetti peggiori del fascismo, non si sente giustificato come un borghese conservatore, sedotto da parole come Nazione e Famiglia. Con lo sfondo della caduta del fascismo, quasi quarantenne, Brancati si prepara a esaminare la tragica farsa del ventennio con un mix di comico disincanto e uno sguardo critico. Ottanta anni fa, pubblicò “I fascisti invecchiano”, una raccolta di otto testi che oscillano tra saggio e narrazione. L’opera offre un’analisi di coscienza sia individuale che collettiva, dove Brancati non risparmia nessuno, compreso il suo io precendente alla “conversione” degli anni ’30, e critica gli opportunisti dell’antifascismo ufficiale e vendicativo.
La narrazione include l’analisi delle manifestazioni del fascismo: teste rasate, camicie nere, obbedienza cieca e culto del capo, accompagnate da un catalogo di nefandezze morali. Brancati descrive il fascismo come una “crudeltà priva di follia”, una barbarie e una corruzione senza estetismo. Secondo Sciascia, il ricordo dell’adesione al fascismo porta Brancati a vivere con imbarazzo, quasi come un custode in una casa derubata, suggerendo l’importanza della vigilanza personale. Il critico Asor Rosa definisce Brancati come un fascista ortodosso, capace di passare a un’osservazione scettica e ironica del mondo, lasciando intravedere una complessa evoluzione del pensiero politico.