Chi cerca di incasellare “L’acquetta di Giulia. Mogli avvelenatrici e mariti violenti nella Roma del Seicento” in categorie fisse rimarrà deluso. Questo libro di Simona Feci, storica dell’Università Orientale di Napoli, si presenta come una crime story e un legal thriller, ma aspira anche a essere un affresco storico, utilizzando strumenti di indagine rigorosi. Senza forzare attualismi, il testo tocca tematiche contemporanee come la violenza maschile e la cultura patriarcale, mettendo in risalto una società in cui il termine femminicidio non esisteva, e in cui il concetto di viricidio non possedeva un significato definito.
Ambientato nell’estate del 1659 a Roma, il libro racconta la storia di cinque donne condannate a morte dopo aver avvelenato i loro mariti violenti. Queste donne, che si sono unite per sfuggire a una vita di soprusi, si trovano in una situazione disperata, costrette a ricorrere a un sodalizio criminale. Al centro della narrazione c’è Giulia Tofana, una palermitana emigrata, la cui mistura velenosa a base di arsenico consente un decesso lento e controllato, che permette alla vittima di prepararsi e alla giustiziera di sfuggire alla giustizia.
Feci esplora i vicoli oscuri di una Roma appena colpita dalla peste, dipingendo un quadro di donne forti e determinati, dalle mogli di mercanti a tessitrici e ruffiane, che trovano nell’unione un modo per affrontare le ingiustizie subite. La storia si infittisce quando, il giorno dell’esecuzione, le donne sono pronte a pagare il prezzo della loro libertà.
Il potere del veleno e la capacità di agire sotto copertura in una società che condanna le loro azioni cercano di rivelare la complessità delle relazioni di genere dell’epoca. Invocando l’idea che “seguire il denaro” sia sempre una regola fondamentale per chi indaga, il racconto si muove tra astuzia, paura e resistenza. Il libro di Feci amalgama elementi di suspense storica e questioni sociali, creando un’opera che sfida le tradizionali categorizzazioni editoriali.