Il regista Kelly Reichardt presents il suo ultimo film, The Mastermind, ambientato in un quartiere residenziale del Massachusetts. Il protagonista, James Blaine Mooney, è un falegname disoccupato e padre di famiglia che decide di organizzare un furto d’arte con una banda di piccoli criminali. L’obiettivo è rubare una serie di dipinti astratti di Arthur Dove, artista americano del primo Novecento. Tuttavia, quando il piano fallisce, la vita di Mooney inizia a sgretolarsi.
Il furto avviene già nel primo quarto del film e il resto è un lungo “dopo”, un racconto sulle conseguenze e sull’inevitabile crollo che segue l’illusione del controllo. La regista dichiara di essersi ispirata ai capolavori noir di Jean-Pierre Melville e ai romanzi di Georges Simenon, ma di averne sovvertito il ritmo. Il film è un “dopo”, un film su come tutto va a rotoli.
La quotidianità del New England diventa il teatro di un fallimento esistenziale, popolato da figure sospese. La regista costruisce un racconto in cui la tensione si annida nei silenzi, nei gesti, più che nell’azione. Il film è anche un ritratto intimo e malinconico di un uomo e del suo mondo, dove il vero colpo non è quello ai danni di un museo, ma quello inferto silenziosamente alla propria coscienza.
La regista aveva pensato di girare un film su un furto d’arte già negli Anni ’90 e l’idea le è frullata in testa per un po’. Qualche anno fa, ha letto un articolo sul cinquantesimo anniversario di un furto al Worcester Art Museum e questo ha dato il via al progetto. Il film è una trama “a mosaico” che unisce diversi casi di cronaca di quegli anni e diventa un gesto di cura verso un artista dimenticato e un modo per riflettere sul valore effimero dell’arte e del possesso.

