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sabato, Ottobre 12, 2024
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Una Vita Dietro le Sbarre

Stefano Binda ha diritto a un indennizzo per l’ingiusta detenzione subita, durata quasi tre anni e mezzo. Tuttavia, la Corte d’Appello di Milano ha stabilito che nella quantificazione dell’indennizzo deve essere considerato il suo “comportamento negligente”, che ha contribuito, seppur in parte, a far sì che i magistrati si convincessero erroneamente della sua colpevolezza. La Corte, presieduta da Roberto Arnaldi, ha riconosciuto il diritto all’indennizzo per Binda, difeso dagli avvocati Sergio Martelli e Patrizia Esposito, e ha confermato la sua assoluzione definitiva dall’accusa di omicidio di Lidia Macchi, avvenuto nel 1987.

Tuttavia, i giudici hanno ridotto l’importo dell’indennizzo da oltre 300.000 euro a poco più di 212.000 euro, identificando una “colpa lieve” da parte di Binda. In particolare, si è sottolineato che durante il procedimento Binda aveva fornito dichiarazioni ritenute dalla Corte “contorte ed evasive”. Questo comportamento, secondo i giudici, ha influito sulla decisione dei magistrati di mantenerlo in custodia cautelare.

La Procura generale di Milano, che ha sempre sostenuto che la condotta di Binda durante il processo avrebbe escluso il suo diritto al risarcimento, ha la possibilità di ricorrere nuovamente in Cassazione. La Corte di Cassazione in precedenza aveva già annullato la sentenza di risarcimento di oltre 300.000 euro, rinviando il caso a un appello bis.

In sintesi, la questione del diritto al ristoro di Binda è complessa e inficiata dalla sua condotta durante il processo. La riduzione dell’indennizzo riflette la valutazione da parte dei giudici della Corte d’Appello, i quali hanno considerato il comportamento di Binda come un fattore che ha in parte contribuito alla sua detenzione ingiusta. Questo caso solleva interrogativi sulla responsabilità individuale e sull’impatto delle dichiarazioni in sede processuale, gettando una luce sulle dinamiche di giustizia e su come tali situazioni vengano gestite nel sistema legale italiano.

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